Vizza: le terapie per l’ipertensione arteriosa polmonare oggi ci sono e si arricchiscono anche di nuovi farmaci
La voce è stanca, come quella di chi esce da ore in corsia. Ma il desiderio è quello di spiegare, nel modo più semplice possibile, affinché più persone possano conoscere cosa significhi non solo avere l’ipertensione polmonare ma anche saperla adeguatamente trattare. Perché la partita si gioca in due, medico e paziente e Carmine Dario Vizza lo sa bene: «Prima di parlare di farmaci e di strategie terapeutiche sarebbe bene parlare ai pazienti di Centri e strutture specializzate. Perché non importa quanto la ricerca possa andare avanti se poi non si finisce nelle mani esperte di chi, quei progressi, sa metterli al servizio dei pazienti». I malati di ipertensione polmonare sono consapevoli che, nella ‘roulette del destino’, per loro la mano di carte è stata migliore che per altre patologie rare: possono contare su terapie che negli anni si sono dimostrate efficaci e su una ricerca che non si è arresa, che non si è fatta spaventare dai ‘piccoli numeri’ ed è andata avanti tanto da mettere a punto anche una nuova classe di farmaci, come gli stimolatori della guanilato ciclasi solubile di cui riociguat è il capostipite. Carmine Dario Vizza è Responsabile del Centro ipertensione polmonare primitiva e Forme Associate Azienda Policlinico Umberto I– Università ‘La Sapienza’ di Roma.
Per comprendere il meccanismo di azione della nuova classe di farmaci è necessario fare un passo indietro e capire meglio che cosa sia l’ipertensione polmonare.
Se parliamo di Ipertensione Polmonare, in generale, non possiamo definirla ‘una malattia’ quanto piuttosto una condizione emodinamica, fortemente invalidante che può portare ad una grave forma di insufficienza cardiaca ed al decesso. Esistono 5 forme di ipertensione polmonare: ipertensione arteriosa polmonare; ipertensione polmonare da malattie del cuore sinistro; ipertensione polmonare secondaria a malattie polmonari; ipertensione polmonare tromboembolica cronica e l’ipertensione polmonare con meccanismi multifattoriali. Uno scenario, dunque, piuttosto complesso.
Prendiamo l’ipertensione arteriosa polmonare (PAH), una malattia rara ad andamento progressivo e degenerativo con un enorme impatto sociale. Da cosa è provocata?
Volendo spiegare in modo molto semplice e schematico, l’ipotesi più accreditata è che le piccole arteriole polmonari vanno incontro a fenomeni di vascocostrizione e successivamente alla loro ostruzione per proliferazione delle cellule che ne costituiscono la parete. La riduzione del numero dei vasi “aperti” causa un aumento delle resistenze al flusso ematico all’interno dei polmoni che si ripercuote a livello del ventricolo destro che deve pompare a pressioni più elevate per poter permettere lo scorrimento del sangue nel circolo polmonare. Per le sue caratteristiche anatomiche (pareti sottili) il ventricolo destro non si adatta a questa situazione e va incontro ad una progressiva dilatazione con perdita della capacità di pompare adeguati flussi di sangue, inizialmente durante sforzo e nelle fasi terminali a riposo.
Rara e con un’alta mortalità. In assenza di terapie specifiche la mortalità è tra il 15-20% annuo con una sopravvivenza mediana di 2.5 anni. Ed è proprio il concetto di diagnosi un elemento chiave. Le associazioni pazienti chiedono ‘mai più orfani di diagnosi’: una provocazione che vuole essere una sensibilizzazione della classe medica. Spesso le malattie rare sono orfane di terapia. In questo caso le terapie ci sono ma quello che manca è proprio la diagnosi.
E’ necessario fare una premessa. Esistono varie forme di PAH: idiopatica, familiare, associata all’uso di anoressizzanti, associata a malattie del tessuto connettivo, ad infezione da HIV, a cardiopatie congenite con shunt, ecc. Nelle forme idiopatiche, e cioè senza una causa nota, la prevalenza e l’incidenza sono talmente basse che è come cercare un ago nel pagliaio. Nelle forme associate a malattie del tessuto connettivo la prevalenza (circa il 10% nella sclerodermia) è tale da giustificare programmi di screening con l’uso di ecocardiografia color-Doppler. Nelle forme associate a cardiopatie congenite è molto frequente (10-20%) e qualche volta si può sviluppare anche dopo la correzione chirurgica del difetto. Nelle altre forme la prevalenza è intorno allo 0.5-1% per cui va eseguito un ecocardiogramma solo nel caso vi siano segni suggestivi di IP (affanno, stanchezza eccessiva, comparsa di gonfiore alle gambe). Per questo ritengo che sia un appello giustamente comprensibile ma temo troppo ottimistico. Perché l’ostacolo è proprio in quel ‘raro’. E’ difficile che la classe medica possa farsi trovare pronta quando capitano pochi casi ogni anno. Ci sono medici che non incontreranno mai nella loro professione un paziente con ipertensione arteriosa polmonare. Ed è per questo che, spesso, quando ne incontrano uno non lo riconoscono. Parlarne ovviamente serve. L’invito è che, nel caso anche solo del sospetto, il paziente venga immediatamente indirizzato ad un Centro di riferimento dove potrà trovare un’équipe specializzata. Perché non basta un cardiologo o uno pneumologo, serve che anche il radiologo sia ‘allenato’ e riconosca, quindi, i segnali che altrimenti passerebbero inosservati.
Sembra la ‘tempesta perfetta’: la rarità che comporta ad una poca conoscenza, la limitata possibilità di uno screening preventivo, i sintomi che non sono specifici e quindi facilmente confondibili con altro. Tutto questo si traduce in una diagnosi ritardata per anni. Ma ormai si sa che una diagnosi precoce e l’accurata identificazione del tipo di ipertensione polmonare sono importanti per il decorso della malattia e, quindi, il destino del paziente. Qual è stato lo scenario terapeutico degli ultimi anni?
Fino agli anni ’90 l’unica opzione terapeutica per questi pazienti era il trapianto di cuore-polmone o di polmone. Una via proponibile solo in alcuni casi e praticabile in un numero esiguo di pazienti (in Italia si eseguono 120-150 trapianti di polmone all’anno per tutte le patologie che interessano quest’organo). Poi sono apparsi diversi trattamenti farmacologici e lo scenario è andato migliorando. Piccoli passi che hanno visto migliorare la mortalità del 5-10% netto l’anno con una sopravvivenza mediana che si è portata intorno ai 5-6 anni. Negli ultimi 15 anni con l’arrivo di nuovi farmaci l’approccio all’ipertensione arteriosa polmonare ha visto l’associazione di una terapia convenzionale (diuretici, anticoagulanti, ossigeno, ecc) con una terapia specifica in grado di agire su un alterato funzionamento delle cellule che costituiscono la parete del vaso polmonare (cellule endoteliali). Fino all’avvento della nuova classe di farmaci chiamati ‘stimolatori della guanilato ciclasi solubile’, di cui riociguat è il capostipite, abbiamo avuto a disposizione, come farmaci specifici i prostanoidi, gli antagonisti recettoriali dell’endotelina e gli inibitori della fosfodiesterasi-5. I prostanoidi agiscono con un’azione vasodilatante ed antiaggregante piastrinico simile a quella della prostaciclina che viene naturamente prodotta dalle cellule che rivestono le pareti interne dei vasi; gli antagonisti recettoriali dell’endotelina, invece, tendono a bloccare l’azione dell’endotelina, un potente vascocostrittore, che viene prodotta in maniera eccessiva nei vasi colpiti dalla malattie; ed infine gli inibitori della fosfodiesterasi-5 che aumentano gli effetti dell’ossido nitrico (NO), una sostanza presente nel nostro organismo che ha una notevole azione vasodilatatrice. E poi sono arrivati gli stimolatori della guanilato ciclasi solubile.
Torniamo quindi al punto di partenza e cerchiamo di capire quale sia il meccanismo di azione di questa nuova classe di farmaci.
Si tratta di un trattamento orale che agisce su un meccanismo che ha una importanza rilevante nella genesi dell’ipertensione polmonare. Cercherò di spiegarlo con semplicità. Normalmente le cellule endoteliali che, costituiscono il rivestimento interno dei vasi sanguigni, producono ossido nitrico che provoca il rilassamento delle cellule muscolari lisce nei vasi con aumento del diametro del vaso e riduzioni delle resistenze vascolari. Questo fa sì che grazie alla normale funzione endoteliale il sangue scorra più facilmente nei vasi sanguigni. L’effetto dell’ossido nitrico sulle cellule muscolari dei vasi non è diretto, ma si verifica attraverso la stimolazione di un enzima, la guanilato ciclasi solubile (sGC) con la produzione di un secondo messaggero chiamato guanosin-monofosfato ciclico (cGMP). Il ruolo del cGMP è importante perché agisce sulle cellule muscolari lisce provocandone il rilasciamento ed inibendone la proliferazione, Semplificando al massimo: minore è il livello di ossido nitrico minore è la produzione di cGMP, maggiore è la vasocostrizione e la proliferazione delle cellule muscolari della parete dei vasi arteriosi polmonari. Fino allo sviluppo di Riociguat, agivamo su questa via utilizzando gli inibitori della fosfodiesterasi 5 (PDE5-I), che riducono la distruzione dei cGMP. Studi sperimentali hanno però dimostrato come il cGMP possa essere degradato anche da altri enzimi (PDE1-2-3….). Il Riociguat ha un meccanismo di azione molto interessante in quanto provoca la produzione di cGMP stimolando direttamente la sCG anche in assenza di ossido nitrico. Questo aspetto è di particolate importanza perché nella PAH la produzione di ossido nitrico è ridotta.
Nella pratica clinica infatti, alcuni pazienti affetti da Ipertensione Arteriosa Polmonare che ricevono inibitori della PDE5 (PDE5i) non hanno una risposta terapeutica adeguata. E’ in fase di pubblicazione uno studio ad hoc (RESPITE) che supporterebbe l’ipotesi secondo la quale i pazienti con ipertensione arteriosa polmonare che non hanno una risposta terapeutica adeguata con un PDE5i o ad una terapia di combinazione con PDE5i possono trarre beneficio dalla sostituzione del PDE5i con Riociguat. Questi risultati andranno confermati da uno studio più ampio (REPLACE) che è attualmente in corso. L’efficacia e la sicurezza di Riociguat in pazienti con Ipertensione Arteriosa Polmonare è stata dimostrata sia nel breve (12 settimane) che nel lungo termine (2 anni) negli studi PATENT1 e PATENT2. A seguito di questi studi il Riociguat ha ricevuto l’indicazione e la rimborsabilità dal parte dell’AIFA sia come monoterapia che in combinazione con antagonisti del recettore dell’endotelina nel trattamento di pazienti con PAH. Nella forma di Ipertensione Polmonare Cronica Tromboembolica (CTEPH), Riociguat continua a rimanere l’unico farmaco indicato nei pazienti non candidabili a chirurgia o con CTEPH persistente o recidivante dopo chirurgia.
Le armi terapeutiche, dunque ci sono, e sono importanti. Ma dal punto di vista del paziente qual è l’iter dopo la diagnosi, qual è il cammino che gli si prospetta?
Nel caso dei pazienti con ipertensione arteriosa polmonare è un percorso a piccoli passi e molti tentativi. Si tratta di un approccio terapeutico di terapia di combinazione sequenziale, in cui la terapia viene modificata nel corso del tempo a seconda delle risposte terapeutiche che si ottengono. Si inizia con una terapia per qualche mese, poi si aggiusta il dosaggio e si associano più molecole fra loro dopo una rivalutazione se il paziente non ha presentato miglioramenti significativi. Ultimamente si sta cambiando strategia di approccio, utilizzando una combinazione di farmaci subito dopo la diagnosi. In ogni caso il paziente va rivalutato per monitorare la risposta terapeutica e decidere se ottimizzare la terapia o aggiungere il terzo farmaco. Questo è un aspetto molto importante, che deve essere preso in considerazione se si vuole la corretta gestione del paziente. Anche dal punto di vista organizzativo. E’ necessario che i malati siano seguiti da Centri specializzati, dove trovano esperti multidisciplinari, e dove tutte le strategie terapeutiche possano essere messe in atto. Perché non tutti i medici, non tutte le strutture più piccole e con meno esperienza, sanno gestire le terapie più complesse.
Avete molti strumenti a disposizione per ‘misurare’ i miglioramenti dei pazienti: dal test dei 6 minuti ad esami diagnostici di laboratorio. Ma il marcatore più importante non è la qualità di vita del paziente?
Senza dubbio. Lo stato del paziente gioca un ruolo importante nella valutazione della risposta terapeutica. Sia dal punto di vista dell’aderenza che della comunicazione. Nella fase di rivalutazione sottoponiamo il paziente ad una serie di accertamenti strumentali che ci danno informazioni sulla funzione cardiaca, sulla capacità di eseguire un esercizio fisico, ma è il paziente che ci dice se ‘si sente’ meglio o peggio. Perché i pazienti alla terapia e al medico chiedono tutti la stessa cosa, di stare meglio. Di vivere, di portare i figli a scuola, tornare al lavoro. Ma ci chiedono anche futuro. Oggi riusciamo a stabilizzare circa il 70% dei pazienti e nel 20-25% dei casi abbiamo un miglioramento clinico significativo, che significa una qualità di vita accettabile.
Qual è la cosa che le dispiace di più quando vede un paziente non adeguatamente trattato, il ritardo nell’inizio delle cure?
Forse no, perché capisco cosa c’è dietro un ritardo di diagnosi. Non me la sento di colpevolizzare il medico che non si è accorto dei campanelli d’allarme. La cosa che mi amareggia di più è quando arrivano pazienti che sono stati trattati con un atteggiamento superficiale ovvero senza un corretta diagnosi o senza una rivalutazione nel corso del tempo. In altri casi assistiamo ad un approccio rinunciatario, non si offre al paziente la possibilità di accesso ai farmaci più complessi (prostanoidi parenterali) perché non si ha abbastanza esperienza con questi farmaci che sono considerati gli strumenti più potenti che abbiamo a disposizione.
Squilla il telefono. E’ un paziente che ha bisogno di un’informazione. La voce improvvisamente sembra non essere più stanca. C’è un paziente da tranquillizzare, tutto il resto non conta. L’intervista finisce qui.