Protesi acustiche, chi le usa tiene acceso il cervello

Ascolta la vita per tenere giovane il cervello. La perdita dell’udito rischia di diventare anche perdita cognitiva. La vergogna ad utilizzare una protesi acustica non deve essere un limite perché in gioco c’è molto di più di un film in tv o di una conversazione tra amici. Il ‘silenzio’ porta isolamento, spegne il cervello e rischia di innescare la depressione. Più che un consiglio questo è un vero e proprio appello: ai quei 5 milioni di italiani che nonostante un calo uditivo non usano protesi acustiche. Solo 2 milioni hanno accettato l’idea che, così come per la vista ci sono gli occhiali, per l’udito ci sono gli apparecchi. «Soprattutto per le persone più anziane – spiega Stefano Di Girolamo responsabile della UOSD di Otorinolaringoiatria del Policlinico Tor Vergata di Roma, Ordinario di audiologia all’Università di Tor Vergata e Presidente del corso di laurea in tecniche audioprotesiche – gli apparecchi acustici sono un tabù, qualcosa di cui vergognarsi perché erroneamente si crede che indossandoli gli altri possano pensare che si è stupidi, sicuramente vecchi. Ed invece sono proprio le protesi acustiche che ci aiutano a tenere il cervello ‘acceso’ e, quindi, rallentano la decadenza cognitiva».
I dati presentati al Parlamento europeo in occasione del World Hearing Day del 3 marzo scorso parlano chiaro: un deficit uditivo non corretto con le protesi accresce la probabilità di demenza (+21%) e, negli uomini, di depressione (+43%).
Professor Di Girolamo, perché il calo dell’udito accelera anche il deficit cognitivo?
Noi erroneamente crediamo che l’udito sia un senso ‘passivo’. Arriva un suono e ‘passivamente’ lo subiamo. Ma non è così. Il cervello si attiva ogni volta, per catturarlo, riconoscerlo, ecc. Persino quando dormiamo il nostro udito è acceso. Le faccio un esempio: se dormiamo in un albergo vicino ad un campanile che batte le ore la prima notte non dormiremo perché le sentiamo tutte. Poi, non ci faremo più caso. E non certo perché abbiamo smesso di sentire e siamo diventati sordi ma perché il cervello – e quindi il nostro udito – si è adattato. E’ come se inconsapevolmente insegnassimo al cervello a sentire in modo selettivo. D’altra parte perché le mamme di notte sentono il pianto del neonato e la maggior parte delle volte i padri nemmeno si girano nel letto? Udito selettivo.
Quindi se ci chiudiamo nel silenzio della sordità è come se lentamente addormentassimo anche il nostro cervello?
Esattamente. Faccio sempre un esempio ai miei studenti universitari: se ho una macchina e la tengo a folle è sempre pronta per partire, se la spengo devo attivarmi se voglio accenderla. Così è per chi perde l’udito: deve mostrare voglia, interesse, attenzione per una determinata cosa e sforzarsi ad andarla a sentire, a capire. Deve accendere e spegnere il cervello. Al contrario se utilizza una protesi acustica è come se il suo cervello fosse sempre acceso e sarà per lui più facile ‘partire’ e cogliere il suono. Il silenzio che circonda una persona che perde lentamente l’udito è come se contagiasse anche il suo cervello che sarà sempre meno stimolato e quindi sempre più rallentato. Inoltre, fatalmente, sarà sempre più isolato socialmente, meno interessato. E’ un circolo vizioso.

Qual è la protesi acustica migliore?
Non si può dire. Ne esistono di molti tipi e bisogna studiare quella più adatta al singolo caso. Però c’è una regola valida per tutti: la protesi migliore è quella che non resta nel cassetto. Perché non serve a nulla una protesi di ultima generazione e altamente performante se poi non la uso, per vergogna o perché troppo tecnologica e difficile.
Come per gli occhiali anche per le protesi acustiche la tecnologia ha fatto molti progressi. Ora stiamo nell’era delle protesi legate allo smartphone.
Le protesi di ultima generazione si regolano con lo smartphone e si adattano all’ambiente circostante. Grazie ad un’applicazione sul telefono è possibile diversificare il tipo di ascolto: quello selettivo, adottato per esempio a una festa, in cui orecchio e cervello collaborano per selezionare il suono che interessa, in un contesto di altre voci e rumori, o quello da dedicare in un colloquio a tu per tu. Gli effetti sui pazienti di queste protesi sono già state studiate al Policlinico Tor Vergata, dove si è visto come le persone riescono a regolare con lo smartphone volume e livelli del suono che appare naturale e pulito. La possibiltà di indossare queste protesi computerizzate ha mantenuto e in alcuni casi aumentato il loro orizzonte comunicativo, capacità da non sottovalutare per mantenere la loro mente attiva.
Sono cambiate le protesi ma stanno cambiando anche gli anziani: sempre più social, sempre più in rete. Possiamo sperare che le protesi escano dai cassetti e diventino comuni come gli occhiali?
Certamente. Anche perché grazie al bluetooth sembrano sempre più degli auricolari e, quindi, il salto culturale è meno evidente e traumatico. D’altra parte gli individui che vengono chiamati baby boomers, i nati cioè negli anni ’40-’50, sono lontani dal voler perdere posizione lavorativa e indipendenza. Hanno scoperto tardi la tecnologia ma cominciano ad essere in tanti ad usarla. A questi pazienti sono destinate le nuove protesi che immagazzinano i dati acustici in forma anonima tramite l’app. Le informazioni raccolte sono utili per aggiornare la tecnologia che viene, quindi, personalizzata in base all’uso che fa la persona del dispositivo. Per esempio, se è un individuo abituato a parlare in pubblico o in contesti affollati, il computer collegato adatterà l’output in base all’ambiente. Per questo si dice che le nuove protesi si basano sull’autoapprendimento perché migliorano la loro efficacia con l’utilizzo e l’archiviazione di dati.
Dal prossimo anno la Scuola di Audiologia dell’Università Tor Vergata attiverà un corso di perfezionamento per audioprotesisti specializzati in questo nuovo tipo di dispositivi, perché si è sentita questa necessità?
La scelta di questo corso di laurea per molti studenti si conferma vincente ed è ai primi posti fra le lauree sanitarie preferite. Secondo le classifiche stilate da Almalaurea, infatti, il tasso di occupazione per i laureati in tecniche audioprotesiche è dell’83%. La volontà della popolazione più anziana – conclude – di volersi mantenere efficiente con le nuove tecnologie è un ottimo segnale. Ma lo è ancora di più se, come evidenziano le statistiche, incentivano l’occupazione della fascia giovanile.
Protesi intelligenti, per anziani 2.0. Più felici di essere riconosciuti come ‘duri d’orecchio’ che ‘assenti’. Anziani che possono contare su protesi che auto-imparano come sentire al meglio. Sul cosa sentire (o non sentire) non si può fare ancora nulla e se nostro marito o nostra moglie ci racconta qualcosa che proprio non ci interessa l’unica strategia resta ancora quella del ‘sorridi e annuisci’.
Claudia Maria Ragno
(Foto: Pixabay e Pexels)