Rosso come l’amore. Rosso come la rabbia. Almeno oggi, toni bassi e coscienze alte
di Claudia M. Ragno
Rosso come l’amore. Rosso come la vergogna. Rosso come la passione. Rosso come la rabbia. Oggi si tingono di rosso le bacheche di Facebook, si riempiono di ‘magliette rosse’ per parlare di umanità, di accoglienza, di solidarietà, di amore, appunto. E le nuove immagini scalzeranno quelle delle tutine rosse dei bambini che vorresti tanto fossero addormentati in braccio a quegli sconosciuti che li cullano. E invece no. Per le loro madri, quando li hanno vestiti prima di mettersi in viaggio, il colore della speranza non era il verde – che in acqua si confonde – ma il rosso. Come il segno lasciato da uno schiaffo in pieno volto. E così, la solidarietà per qualche ora si farà spazio tra i post e la rabbia di chi ha gridato al complotto, di chi ha voluto vedere in quei bambini dei manichini, in quell’abbraccio una congiura. C’è chi griderà allo sdegno per un’emorragia di umanità che sembra non fermarsi e chi griderà di fermare le navi e lasciare ognuno al proprio destino. Al di là di tutto, al di là delle proprie convinzioni politiche, religiose, umane resterà solo una certezza: tutti oggi alzeranno la voce nel mercato dei luoghi comuni di Facebook.
Cosa c’è dietro a quel rosso, a quei post, a quei commenti? Cosa spinge una persona ‘normale’ a scrivere commenti tanto rabbiosi davanti ad immagini tanto dolorose e cosa anima una persona distratta persino con il suo vicino di casa a postare con tanto ardore la propria foto in t-shirt rossa per una causa comune? Perché Internet ci spinge ad essere quello che, forse, non siamo davvero? Domande difficili a risposta aperta. Per cercare qualche spiegazione è davvero utile leggere un libro uscito lo scorso anno, ma quanto mai attuale, di Patricia Wallace, psicologa dell’Università del Maryland, La psicologia di Internet (Raffaello Cortina Editore) giunto alla seconda edizione (Quando è uscita la prima edizione nel 1999, dominavano ancora le librerie di calce e mattone, scrive la Wallace).
E’ chiaro che Internet (nel senso più ampio possibile del concetto) non rappresenta il Male assoluto e i social network non sono un luogo di perdizione. Ma è altrettanto evidente – e sotto gli occhi di tutti, nelle bacheche di tutti – che l’uso che ne viene fatto in questi ultimi tempi non fa di tutti noi persone migliori. Per prima cosa Facebook ci rende tristi, depressi. “La maggior parte delle persone – scrive la Wallace – enfatizza stati d’animo positivi nei propri aggiornamenti di stato, per cui un individuo tende a deprimersi se ha l’impressione che tutti siano più allegri e abbiano più successo di lui”. In fondo la bacheca altro non è che una vetrina. E se penso di essere meno bello, meno allegro, meno fantastico di tutti quelli belli e fantastici che ritengo ‘amici’ ecco che la frustrazione è in agguato. E da lì alla rabbia, il passo è breve.
Ok, siamo tutti d’accordo. Un po’ siamo tutti depressi, tutti frustrati, tutti stressati e stanchi. Il grado di sopportazione e di tolleranza è ormai pari allo zero. E così il tempo tra il semaforo verde che scatta e il gesto con cui suoniamo il clacson si misura in millesimi di secondo. Ma da qui a scrivere commenti violenti, ad incitare all’odio, a raggiungere i più bassi livelli dell’istinto umano ce ne passa. La Wallace ci ricorda come “molti ritengono che Internet sia comunemente teatro di aspri scontri e che le espressioni di aggressività on line siano più numerose che nella vita reale”. In effetti è così, numerose ricerche lo confermano. E la colpa è di diversi fattori, sono molteplici gli elementi scatenanti che fanno sì che una persona si comporti in modo più aggressivo on line di quanto non sia in realtà. Perché gli ambienti on line presentano caratteristiche (frustrazione, anonimato, invisibilità e distanza fisica) che notoriamente favoriscono la disinibizione. Per la serie: istruzioni per costruire una bomba sociale.
L’anonimato nei social è un concetto più ampio di quello al quale, fino ad oggi, ci eravamo abituati. Perché i post pieni di odio non sono mai veramente anonimi. Fanno capo, spesso, a persone vere, con bacheche vere e vite vere. Tanto che ne pagano conseguenze vere. Il più delle volte costrette solo a chiudere i profili social (e quindi diventare veramente anonimi), in modo sempre maggiore anche con conseguenze legali. E’ la ‘percezione dell’anonimato’ che ci fa essere spavaldi. Sì c’è un nome, c’è una foto ma il mondo è lontano, non sa davvero chi sono o dove abito o cosa faccio. “L’anonimato può favorire l’estrinsecarsi di un comportamento aggressivo e portare alla cosiddetta ‘disinibizione tossica’ (…) L’anonimato in Internet – sostiene la Wallace – non è reale, anche se l’identità di un individuo è in qualche modo rintracciabile, l’accresciuta sensazione di anonimato è di per sé sufficiente a stimolare comportamenti disinibiti”. Il che è un bene se dobbiamo confidarci con qualcuno o denunciare qualcosa, decisamente meno se è la scusa per diffondere odio.
E’ capitato a tutti davanti ad uno di questi post, più o meno virali (in genere più sono odiosi e più visualizzazioni ottengono, a tutto vantaggio di chi fa del troll uno stile di vita), soffermarsi non tanto sul contenuto del post ma sui commenti. E’ un susseguirsi di insulti che il più delle volte si allontanano dal post e vivono di vita propria. Ma è anche il concentrato di persone che la pensano allo stesso modo, che si sostengono, supportano, incitano l’un l’altro. Nel bene e nel male. Perché è violento chi invita all’odio ma diventa violento anche chi si indigna e vorrebbe, invece, prenderne le distanze. Nasciamo per essere creature sociali e ci siamo trasformati in vittime del nostro stesso ‘gruppo’. “Su Internet le persone che condividono i vostri interessi sono a portata di click, indipendentemente da quanto desueto, bizzarro o socialmente deprecabile sia l’argomento di cui desiderate parlare (…) Interagire con un piccolo gruppo di persone simili, sparpagliate per l’intero Globo può deformare i consueti schemi di confronto sociale; interagire con altri soggetti che non solo condividono il proprio punto di vista ma lo sostengono appassionatamente può portare ad una eccessiva convinzione della correttezza delle proprie idee e, passo dopo passo, a spingersi verso opinioni più radicali sostenuti da persone affini. Addio, voci moderate!”
Tradotto: cerchiamo consensi. Come quando postiamo la foto di quello che mangiamo o il selfie sulla spiaggia. E, quindi, interagiamo solo con chi ci appoggerà. E saremo tanto più radicali quanto più cercheremo consenso. Ma non basta, ci informiamo solo da chi la pensa come noi. Perché l’obiettivo non è saperne di più ma sapere di avere ragione. “Si possono scegliere e selezionare – scrive sempre la Wallace – siti e blog che confermano ciò di cui già si è persuasi e si trascurano le informazioni che potrebbero mettere in discussione il nostro personale punto di vista”. Giammai.
E poi c’è l’altra faccia della luna. Quelli che non si sognerebbero mai neppure alla lontana di postare messaggi di odio, di rabbia, di violenza. E nemmeno di cliccare mi piace su uno di questi. Ma che, al contrario, quasi con fare compulsivo (senza alcun riferimento a patologie psichiatriche) cliccano, postano, aderiscono ad ogni iniziativa sociale che profumi di buono. Perché Internet ha trasformato il concetto di ‘mobilitazione di gruppo’, rendendolo alla portata di tutti. Anche di chi, in realtà, ci crede poco a quella causa. Anche di chi non aiuterebbe mai la vicina di casa a portare una busta della spesa, che in vita sua non ha mai lasciato un posto in autobus ad una persona anziana e che se un disabile alle poste salta la fila grida allo scandalo. Ma un click non si nega a nessuno. “In Internet è molto facile dare il proprio sostegno alle cause preferite, basta cliccare il tasto ‘mi piace’ sul profilo dell’organizzazione in questione. Ma offrire questo tipo di sostegno simbolico aumenta o diminuisce la probabilità di dare in seguito un sostegno più concreto?” Bella domanda quella della Wallace, difficile trovare una risposta. Perché il pericolo è che in realtà si sia messo in atto un ‘attivismo da poltrona’ che mette a posto la coscienza con il minimo sforzo. Un ‘tana libera tutti’ della morale che ha il vantaggio di garantire qualche like in bacheca.
Comunque vada, oggi quel rosso che invade Facebook non deve passare inosservato. Ma va postato – e commentato- solo con onestà intellettuale e morale. Con il giusto tono di voce. Indipendentemente dalla posizione che si vuole prendere.
Rosso, come l’onore. Rosso come l’umanità. Perché se la coscienza avesse un colore oggi sarebbe rossa. E indosserebbe una maglietta. Perché l’appello di Don Ciotti deve essere ascoltato. Soprattutto dal popolo di Internet. Al di là dei colori politici. Al di là degli stessi migranti. Perché quell’emorragia di umanità non riguarda solo quei bambini arrivati dal mare. Ma il buon senso di tutti noi. “La prima regola per comunicare correttamente on line è ‘ricordare di essere umani’ e tenere conto che al di là dello schermo ci sono esseri umani” la Wallace su questo non ha dubbi. Rosso come il silenzio. Rosso come il semaforo della tastiera che almeno per oggi ci invita a fermarci, a non cliccare su invio, a non buttarci nella mischia.