L’Italia un paese per vecchi. Ma un futuro longevo e sostenibile è possibile. Pensiamoci adesso
Che l’Italia fosse un paese per vecchi lo sapevamo già. Ma che la ‘bomba invecchiamento’ fosse pronta per deflagrare trasformando la nostra penisola in un enorme e disorganizzato ospizio non era poi così chiaro. E invece non ci sono più alibi: disabilità e domanda di assistenza sono le micce detonanti che bisogna rapidamente disinnescare. Non chiudendo gli occhi e rimandando il problema ma, al contrario, investendo oggi in reti assistenziali e competenze tecnologiche. In altre parole in Long-Term Care. Una fotografia, che suona più come un campanello d’allarme, quella presentata oggi al Ministero della Salute da Italia Longeva – Rete nazionale sull’invecchiamento e la longevità attiva in occasione della terza edizione degli Stati Generali dell’assistenza a lungo termine, la due giorni di approfondimento e confronto sulle soluzioni sociosanitarie a supporto della Long-Term Care. I dati ISTAT elaborati per Italia Longeva non lasciano più spazio ad equivoci e fraintendimenti: è tempo di agire.
La popolazione italiana, in continua crescita negli ultimi cento anni, oggi diminuisce, e al contempo invecchia, più velocemente che mai: nel 2050 saremo due milioni e mezzo in meno, come se la città di Roma sparisse dalla Penisola. Ma il dato ancor più rilevante è che gli over65, oggi un quarto della popolazione, diventeranno più di un terzo, vale a dire 20 milioni di persone, di cui oltre 4 milioni avranno più di 85 anni. La “bomba dell’invecchiamento”, pronta a esplodere già dal 2030 se non adeguatamente gestita, innescherà tra l’altro un circolo vizioso: l’aumento della vita media causerà l’incremento di condizioni patologiche che richiedono cure a lungo termine e un’impennata del numero di persone non autosufficienti, esposte al rischio di solitudine e di emarginazione sociale; così crescerà inesorabilmente anche la spesa per la cura e l’assistenza a lungo termine degli anziani, ma anche quella previdenziale, mentre diminuirà la forza produttiva del Paese e non ci saranno abbastanza giovani per prendersi cura dei nostri vecchi. Infatti, oggi tre lavoratori hanno sulle spalle un anziano, domani saranno solo in due a sostenerlo. Questi sono solo alcuni dei dati emersi dalle proiezioni sociodemografiche e sanitario-assistenziali al 2030 e al 2050 elaborate dall’ISTAT per Italia Longeva. «I dati presentati si riferiscono a semplici proiezioni della situazione attuale – avverte Giorgio Alleva, Presidente ISTAT – e pur non trascurando un rilevante margine di incertezza, non vi è dubbio che il quadro prospettico sollevi una questione di sostenibilità strutturale per l’intero Paese».
L’Italia, quindi è il Paese più vecchio d’Europa, e sta vivendo – e sempre più lo farà – le conseguenze della pressione demografica: aumento del carico di cronicità, disabilità e non autosufficienza. Il sistema, però, ‘resta al palo’ nell’organizzazione di una rete capillare e sostenibile di servizi sul territorio, a partire dalle cure domiciliari: siamo il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la Long-Term Care, alla quale destiniamo poco più del 10% della spesa sanitaria – a fronte di percentuali che superano il 25% nei Paesi del Nord Europa –, pari a circa 15 miliardi di euro. Di questi, solo 2,3 miliardi (l’1,3% della spesa sanitaria totale) sono destinati all’erogazione di cure domiciliari, con un contributo a carico delle famiglie di circa 76 milioni di euro. I dati emergono dalla seconda Indagine sull’Assistenza Domiciliare in Italia (ADI): chi la fa, come si fa e buone pratiche, realizzata da Italia Longeva.
Nei prossimi dieci anni 8 milioni di anziani avranno almeno una malattia cronica grave: ipertensione, diabete, demenza, malattie cardiovascolari e respiratorie.
«Curarli tutti in ospedale – commenta Roberto Bernabei, Presidente di Italia Longeva e professore Ordinario di Geriatria e gerontologia all’Università Cattolica di Roma– equivarrebbe a trasformare Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna e Firenze in grandi reparti a cielo aperto. È evidente, quindi, che le cure sul territorio non rappresentano più un’opzione, ma un obbligo per dare una risposta efficace alla fragilità e alla non autosufficienza dei nostri anziani, che si accompagnerà anche a una crescente solitudine. Le stime ISTAT per Italia Longeva ci dicono che, nel 2030, potrebbero arrivare a 4 milioni e mezzo gli ultra 65enni che vivranno da soli, e di questi, 1 milione e 200mila avrà più di 85 anni».
Il potenziamento dell’assistenza domiciliare e della residenzialità fondata sulla rete territoriale di presidi sociosanitari e socioassistenziali, ad oggi ancora un privilegio per pochi, con forti disomogeneità a livello regionale, non è più procrastinabile anche in funzione di equilibri sociali destinati a scomparire, con la progressiva riduzione di persone giovani all’interno dei nuclei familiari.
Se oggi ci sono 35 anziani ogni 100 persone in età lavorativa, nel 2050 ce ne saranno quasi il doppio: 63.
«Le famiglie – commenta ancora Bernabei – pilastro del nostro welfare, saranno sempre meno numerose, pertanto i servizi sociosanitari, che già oggi coprono solo un quarto del fabbisogno, dovranno essere integrati sempre più dal supporto di badanti, da nuove forme di mutualità e, probabilmente, da un ritorno allo spirito di comunità. C’è poi la disabilità – aggiunge Bernabei – che nel 2030 interesserà 5 milioni di anziani, e diventerà la vera emergenza del futuro e il principale problema di sostenibilità economica nel nostro Paese. Essere disabile vuol dire avere bisogno di cure a lungo termine che, solo nel 2016, hanno assorbito 15 miliardi di euro, dei quali ben tre miliardi e mezzo pagati di tasca propria dalle famiglie».
Al Nord, un over65 ha il triplo delle possibilità di essere ospitato in una residenza sanitaria assistenziale rispetto a un cittadino del Sud, e ha a disposizione circa il quintuplo di assistenza domiciliare, in termini di ore e di servizi.
«Fatalmente – commenta ancora Bernabei – questa disparità riguarda anche il trend di crescita dell’aspettativa di vita libera da disabilità, che è quasi appannaggio esclusivo degli anziani del Settentrione». Ma i dati poco incoraggianti sulla disponibilità di posti letto nelle strutture sociosanitarie pubbliche e private, e sul numero di ore dedicate alle cure domiciliari, mostrano un’offerta disomogenea nelle varie regioni, con un divario che va oltre le disuguaglianze Nord-Sud. «Dobbiamo evitare che l’Italia diventi un enorme ma disorganizzato ospizio – conclude Bernabei – nel quale resteranno pochi giovani costretti a lavorare a più non posso per sostenere milioni di anziani soli e disabili. E a questo scopo prevenire le malattie non basterà. Visto il numero di over85, bisognerà far fronte alla inevitabile perdita di autonomia, investendo in reti assistenziali, competenze e tecnologia, la famosa tecnoassistenza che propugniamo da anni. In altre parole, scommettere su una Long-Term Care matura e moderna, che si rivelerà il vero banco di prova per il futuro del Paese. Se perdiamo questa partita, i numeri, che grazie all’ISTAT già conosciamo, ci schiacceranno. E sarà vana qualsiasi altra riforma della sanità, del lavoro o della previdenza sociale».
Questo nuovo quadro impone delle risposte anche da parte del legislatore, per ciò che attiene una rimodulazione dei diritti delle famiglie con persone disabili.
«Nei prossimi 50 anni – afferma il Tito Boeri, presidente dell’INPS – le generazioni maggiormente a rischio di non autosufficienza passeranno da un quinto a un terzo della popolazione italiana. Non è pensabile rispondere a una domanda crescente di assistenza di lungo periodo basandosi pressoché interamente sul contributo delle famiglie. Ci vogliono politiche di riconciliazione fra lavoro e responsabilità famigliari che modulino gli aiuti in base allo stato di bisogno, ad esempio sembra opportuno rimodulare i permessi della L. 104/92 in base al bisogno effettivo di assistenza».