Hiv, l’empatia digitale è parte della cura

World Aids Day, anche in questo strano anno i riflettori si sono accesi. E spenti. Per un giorno si è rotto il silenzio su un virus che sembra dimenticato. E, invece, è quanto mai presente. Per un giorno ci si è ricordati di chi vive con l’HIV e l’Aids, con tutte le difficoltà – di salute ma anche di relazione – con le quali quotidianamente si trovano a fare i conti. Un virus nel virus. Ma se il Covid-19 fa paura a tutti, l’HIV sembra non far più paura a nessuno. Ma non solo, anche le persone sieropositive – al pari di altri malati pensiamo solo alle patologie oncologiche o cardiovascolari – si trovano a fare i conti con una Sanità che, in stato di emergenza, gli chiede di aspettare tempi migliori. Ma nessuna persona che combatte con la malattia si può permettere di aspettare.
Ma c’è anche chi alle persone con HIV pensa da tempo e sta lavorando ad un progetto che parla di loro. Anzi, che parla ‘per loro’, per dare voce alle emozioni, ai sentimenti, ai bisogni che a volte è difficile raccontare anche al medico. Perché non si trovano le parole o perché c’è poco tempo o perché il medico cambia di visita in visita e ogni volta ricominciare da capo è difficile. E anche per il medico è impossibile in poche manciate di minuti capire davvero chi ha davanti, comprendere ciò che una cartella clinica non può raccontare. Eppure l’empatia è parte della cura. Perché l’HIV è un virus che stravolge la vita, cambia le relazioni, incide profondamente nel vissuto delle persone. E non può essere ‘liquidato’ solo come una malattia con sintomi e terapie. Serve di più. Bisogna avvicinare le persone.
E questo è quello che sta facendo la professoressa Guendalina Graffigna – Direttore dell’EngageMinds HUB dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – che grazie al supporto di Fondazione MSD sta lavorando ad un’APP dedicata alle persone con HIV per migliorare il rapporto empatico con l’infettivologo. Un progetto ambizioso che sarà pronto nei prossimi mesi ma che vale la pena raccontare dall’inizio.
Il digitale in questo assurdo 2020 ha salvato i rapporti tra persone. Ciò che ci faceva sicuramente più paura perché lo vedevamo come ‘disumanizzante’, quasi fosse un muro insormontabile che si alzava tra le persone, è diventato, in realtà, ciò che abbiamo amato di più perché ha unito, avvicinato, ha permesso quel contatto umano ‘di vicinanza’ altrimenti impossibile. Una lezione, tra le tante, che questo Covid-19 ha impartito a tempo di record a tutti noi. E il mondo della salute è stato forse quello che più di tutti si è avvantaggiato di questa straordinaria modalità di interazione. L’ha fatta propria e l’ha umanizzata. La sfida è già in atto, ma bisogna fare un salto ulteriore e portare davvero la Digital Health in una dimensione dove ‘digitale’ ed ‘empatia’ coesistano, si supportino, si aiutino. Al servizio dei pazienti e anche dei medici.

Una sfida ambiziosa nella quale la Fondazione MSD è impegnata da tempo. Da prima che il Covid-19 impartisse questa lezione. Da diversi anni, infatti, la Fondazione con la Patient Academy è al fianco delle Associazioni di Pazienti in progetti di empowerment ed engagement, con un focus particolare sulle opportunità e le sfide offerte dalla salute digitale, ben consapevoli che l’innovazione debba partire dalle persone ed essere ritagliata sui loro reali bisogni di salute. «Crediamo davvero che questa sia la risposta che cercano le persone che quotidianamente si confrontano con una malattia – dice Goffredo Freddi, Direttore della Fondazione MSD – e, quindi, non abbiamo esitato un attimo a sostenere il progetto dell’EngageMinds HUB dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. La nostra visione della Digital Health è molto chiara: bisogna mettere in discussione lo stereotipo che le tecnologie si devono per forza associare a spersonalizzazione e disumanizzazione. Ma non basta parlare di nuovo umanesimo digitale e tecnologico, è necessario dargli concretezza e trasformare questa ‘visione’ in azioni concrete. Questa nuova App alla quale sta lavorando il team diretto dalla professoressa Guendalina Graffigna va proprio in questa direzione: risponde a quel bisogno di comunicazione empatica che viene sia dalle persone che vivono con HIV che dai medici infettivologi. Ascoltarsi reciprocamente, per capirsi meglio. Perché il dialogo empatico è parte del processo di cura e non potrebbe essere altrimenti visto che l’HIV/AIDS incide profondamente nella qualità di vita e di relazione dei pazienti. Ma a volte non c’è tempo, non c’è occasione, non ci sono le parole giuste per ‘raccontarsi’ in poco tempo. Questa App ha proprio lo scopo di aiutare e supportare entrambi i protagonisti di questa relazione».
«Ed infine, un aspetto importante – conclude Goffredo Freddi – che ci tengo a sottolineare. Il valore aggiunto di questa App è rappresentato dal coinvolgimento diretto già nella fase di realizzazione delle Associazioni di Pazienti (NADIR, NPS e PLUS) e di Infettivologi. E questo è perfettamente coerente con i valori in cui crede la Fondazione: il punto di vista dei protagonisti deve essere ascoltato se davvero il digitale ha l’ambizione di essere strumento al servizio delle persone. Perché sono le Persone a rendere umano il digitale, sono i loro bisogni, le loro storie, le loro esperienze. Per una volta è il digitale a dove imparare, a dove andare a scuola di empatia».
Per saperne di più su questa App ma soprattutto per capire se davvero l’Human Digital Health è a portata di mano, se il digitale può essere empatico abbiamo intervistato la professoressa Graffigna. E la prima domanda è d’obbligo: il digitale può davvero essere ‘umano’?

In una situazione particolare come quella che stiamo vivendo legata alla pandemia ci siamo resi conto di quanto fosse importante mettere a punto uno strumento per aumentare l’empatia medico-paziente nell’ambito dell’HIV. Questa esigenza c’era anche prima del Covid-19 ma adesso si è fatta quanto mai urgente. La pandemia ci sta rapidamente portando verso una medicina sempre più digitale ma non possiamo prescindere dal fattore ‘umano’. Per questo le parole d’ordine devono essere ‘empatia’ e ‘umanizzazione’ della presa in carico digitale del paziente HIV.E’ vero, il digitale rischia di depersonalizzare la relazione, di farci sentire fisicamente ed emotivamente distanti. Il modo per sentirci socialmente vicini è proprio quello di aumentare l’allineamento empatico tra le due persone in relazione. Il digitale, soprattutto per chi non è abituato ad utilizzarlo nella pratica clinica (sia medico che paziente), rischia di azzerare le nostre capacità empatiche e relazionali. Per questo noi stiamo realizzando uno strumento digitale che ‘avvicini’ emotivamente e lo facciamo aggiungendo al processo un ingrediente empatico che permette proprio di umanizzare questa relazione. Tutto questo non fa che amplificare, potenziare le competenze relazionali di entrambi: del medico che si deve sintonizzare con il mood del paziente e del paziente stesso che deve imparare ad esprimere bisogni e sentimenti. Tutto questo fa sì che il digitale sia ‘un mezzo’ e l’umanizzazione ‘un fine’, un obiettivo non solo del teleconsulto ma di tutta la medicina, sia che avvenga in presenza che a distanza.
Qual è stato l’impatto del Covid-19 nella sfera psicologica delle persone con HIV?
Tutta la Letteratura scientifica e gli studi di questi mesi ci dicono che il COVID-19 impatta negativamente sulla gestione della patologia e delle persone con HIV. Si evidenziano criticità sia in merito all’accesso alle cure e ai servizi che sui contesti di vita delle persone HIV. Il COVID-19 ha amplificato aspetti spesso presenti nella vita delle persone HIV+: solitudine, assenza di speranza, stigma sociale, sfiducia negli operatori sanitari. In particolare, il distanziamento fisico e l’isolamento sociale (raccomandati per contenere la pandemia) sembrano di aver acuito la criticità in chi era già particolarmente gravato e a rischio. E da qui aumento dello stress, ansia disturbi del sonno. Ma ancora c’è molto da scoprire su quale sia il reale impatto psicologico di questa situazione su questa categoria di malati.
Perché il fattore ‘empatico’ è un elemento integrante di un processo di cura?
Un paziente che riesce a mettere a fuoco i propri bisogni, le proprie necessità avrà una maggiore consapevolezza emotiva e quindi potrà meglio comunicare con il suo medico. E, allo stesso tempo, un medico che è ‘sintonizzato’ sul vissuto del paziente riuscirà ad avere degli strumenti comunicativi adeguati per rapportarsi con il suo paziente. E il processo di cura non potrà che beneficiare di tutto questo. La Letteratura ha ampiamente dimostrato che la scelta da parte delle persone con HIV di mettere in atto o meno un comportamento aderente nei confronti della terapia può dipendere da vari fattori tra i quali l’accettazione e l’adattamento alla propria condizione clinica, la percezione della gravità della propria malattia, i benefici percepiti del trattamento, il senso di autoefficacia rispetto al comportamento da agire, ecc. Questi aspetti possono giocare un ruolo determinante nella scelta del paziente di mettere in atto o meno un comportamento aderente ma tutto questo è possibile solo se egli è in possesso di una solida consapevolezza. La mancata comprensione o il fraintendimento delle informazioni possono giocare un ruolo negativo. E tra le principali cause di incomprensione ci sono le difficoltà di comunicazione medico-paziente.

State lavorando ad un’App che ‘avvicinerà’ empaticamente le persone con HIV e i medici infettivologi. Ce la racconta brevemente?
Quest’App aiuterà a scattare una ‘fotografia’ dello stato d’animo del paziente, dei suoi sentimenti, del suo vissuto con la malattia. Una fotografia che servirà al paziente per potersi ‘raccontare’ e al medico per poter conoscere meglio chi ha davanti. A volte non si trovano le parole giuste o non c’è abbastanza tempo. Anche la Letteratura scientifica nell’ambito dell’HIV in questi anni ha messo in evidenza come ci sia un disallineamento tra le necessità emotive-relazionali del paziente e le competenze relazionali-empatiche del medico. E sempre dalla Letteratura sappiamo che gli infettivologi stessi chiedano strumenti per colmare questo gap e, quindi, essere comunicativamente efficaci. Un gap ancora più enfatizzato quando la comunicazione medico-paziente in HIV diventa digitale e dove, dal punto di vista di processi organizzativi, si rischia una frammentazione della storia di relazione. Non sempre, infatti, il paziente interagisce con lo stesso medico e, quindi, ogni volta si trova a dover ricostruire una relazione da zero. Era dunque necessario creare uno strumento che fotografasse la storia di quel paziente e quest’APP sarà una sorta di ‘diario emotivo’.
Un’App, lo abbiamo visto, che nasce per colmare un gap di comunicazione. Ma quali sono, in dettaglio, i bisogni comunicativi dei pazienti ai quali dare una risposta?
L’esigenza di sentirsi considerati come persona, che il proprio infettivologo si interessi della loro salute globale e comunichi in modo chiaro ed accessibile. L’aspettativa di ricevere un aiuto per decostruire le paure al fine di accettare la propria condizione e riuscire a stabilire relazioni sociali significative. Il bisogno di acquisire e migliorare le competenze di gestione delle emozioni e dei sentimenti. Ed infine, l’aspettativa di imprare a porre domande precise agli operatori sanitari per farsi ascoltare.
Questo strumento si rivolge ai pazienti ma anche ai medici.
Quest’App sarà al servizio di entrambi i protagonisti di questa relazione. Perché si offre come strumento-ponte tra i due. D’altra parte anche i medici hanno bisogni comunicativi da soddisfare e questo strumento li aiuta a comprendere meglio il vissuto psicologico del paziente. Ed è per questo che abbiamo previsto , sin dalle fasi progettuali, il coinvolgimento di 3 Associazioni Pazienti (NADIR, NPS e PLUS) e di 2 infettivologi. Non è facile fare la sintesi di questa pluralità di voci ma ne vale davvero la pena perché, alla fine, sarà davvero la risposta ai bisogni degli utenti e non l’ennesimo strumento digitale da ‘adattare’ o ‘da subire’. E’ un progetto ambizioso che si avvale di un partner informatico Datawizard ma soprattutto che è resa possibile grazie al contributo della Fondazione MSD che ha creduto nel lavoro dell’EngageMinds HUB e che come noi crede fortemente nella Digital Human Health al servizio di medici e pazienti. Una visione della salute digitale dove ‘umanizzazione’ ed ‘empatia’ sono degli imperativi.
Questi mesi sono stati difficili per tutti e anche la ‘rivoluzione digitale’ che pure ha rappresentato un valore aggiunto importante non è stata così indolore.
E’ stato tutto molto molto rapido. Non c’è stato il tempo per adattarsi. Abbiamo dovuto shiftare frettolosamente da ‘modalità in presenza’ a ‘modalità a distanza’ e quindi è stato un cambiamento un po’ traumatico che non ci ha concesso la possibilità, dal punto di vista psicologico, di adattarci e abituarci magari mettendo in atto delle strategie personali per riuscire a mantenere l’empatia necessaria. Invece, non ne abbiamo avuto il tempo. E allora, è come dover prendere un ‘integratore’ dell’empatia per aumentare la nostra velocità di cambiamento. Una sfida per tutti.
Fare la differenza nella vita delle persone. Incidere e migliorare la qualità della vita. E’ una sfida ambiziosa quella che si pone questa App che non si limita a ‘fotografare’ una situazione emotiva e a mettere in connessione paziente e medico ma vuole migliorare la qualità di vita delle persone con HIV. Chi vive con questa malattia sa che la sua qualità della vita è sicuramente legata alle terapie ma non può prescindere anche dalle componenti emozionali e psicologiche. D’altra parte i passi in avanti compiuti nel trattamento dell’HIV hanno consentito oggi di cronicizzare la malattia e questo ha creato un nuovo bisogno di garantire una buona qualità di vita nel lungo termine ai pazienti. Un bisogno al quale quest’App vuole dare una concreta risposta.
