D’Armini: farmaco specifico anche per l’Ipertensione Polmonare Tromboembolica Cronica inoperabile
«Tutto ha avuto inizio nel 1991. Il primo paziente che abbiamo operato per ipertensione polmonare cronica tromboembolica, era una donna di 44 anni, una suora. Le abbiamo fatto un trapianto cuore-polmoni. Perché credevamo che un cuore così provato non potesse mai riprendersi, nemmeno con due polmoni nuovi. Qualche anno dopo – era il 1994 – ci rendemmo conto che, invece, se ripulivamo le arterie polmonari, se toglievamo le ostruzioni presenti al loro interno, il cuore era perfettamente in grado di riprendersi, e anche ‘alla grande’. Da allora il trapianto di scelta è diventato il bi-polmonare, e solo come estrema ratio. Sono stati anni ‘da pionieri’ nei quali mese dopo mese avevamo la consapevolezza di aver fatto un passo in avanti. La soddisfazione più grande è arrivata quando ci rendemmo conto che stavamo operando pazienti con caratteristiche tali che solo un anno prima avremmo rimandato a casa. E allora, abbiamo deciso di richiamarli quei pazienti, di farli uscire dalle liste d’attesa per i trapianti perché adesso potevamo dargli quella chance chirurgica che gli avevamo negato. Alcuni erano morti ma molti abbiamo potuto salvarli. Sono passati poco più di 25 anni da quella donna di 44 anni e sono stati tutti una corsa, in particolare gli ultimi dieci. Eppure se qualcuno mi avesse chiesto una previsione qualche anno fa gli avrei detto che ci saremmo presto trovati ad operare solo pazienti con un passato di malattia cortissimo alle spalle. E invece no, e questo rende tutto più amaro». Ha una passione contagiosa Andrea Maria D’Armini quando racconta il suo lavoro. Parla di tecniche chirurgiche, di percentuali di successo, di statistiche operatorie e lo fa intramezzando i numeri con racconti di vita, di persone tornate a sciare, di donne diventati madri, di ragazzi che oggi sono uomini che continuano ad andarlo a trovare. Allora gli credi quando ti dice che gli dispiace quando un paziente preferisce non farsi operare perché ‘in fondo alla mia età…’. «Ma ho imparato a rispettare e a non forzare la mano. E non per la medicina difensiva, ma perché è giusto così». Andrea Maria D’Armini è Professore Ordinario di Cardiochirurgia, Responsabile Unità di Cardiochirurgia, dei Trapianti Intratoracici
e dell’Ipertensione Polmonare, Università degli Studi di Pavia, Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico ‘San Matteo’.
Ricevere una diagnosi di Ipertensione Polmonare Cronica Tromboembolica (CTEPH) non è più una inappellabile sentenza come avveniva diversi anni fa. In che cosa si differenzia dalle altre forme di Ipertensione Polmonare?
Rispetto alle altre forme di Ipertensione Polmonare, la CTEPH ha una soluzione chirurgica (l’endoarteriectomia polmonare) in quanto è determinata da una causa meccanica: rimuovo l’ostruzione delle arterie polmonari, guarisco dal problema. E’ un’estrema semplificazione ma credo che renda bene l’idea. Ci sono, poi, altre differenze come, per esempio, la tipologia dei pazienti: mentre l’ipertensione polmonare di tipo 1 colpisce prevalentemente le donne intorno ai 40 anni, quella di tipo 4 non fa sostanziali differenze di genere e ha un’età media di insorgenza intorno ai 60 anni.
Qual è il ‘paziente tipo’ che può essere eleggibile al trattamento chirurgico?
Sulla carta tutti i pazienti con una diagnosi di CTEPH sono operabili, tuttavia ci sono dei casi in cui non è possibile intervenire e i motivi sono diversi. Iniziamo dai casi in cui è tecnicamente impossibile intervenire, perché l’ostruzione è troppo periferica (ovvero troppo lontana dal cuore) o perché il danno è ormai così di vecchia data che non si riesce neppure più a distinguere l’arteria polmonare a valle dell’ostruzione. Si è trasformata in un “cordoncino fibroso” senza più alcun lume residuo: anche se tolgo il “tappo” non può più cambiare nulla. Nel primo decennio in cui facevano questi interventi, su 100 pazienti 75 erano tecnicamente operabili ma i restanti 25 avevano come unica possibilità una valutazione trapiantologica. Poi, abbiamo affinato le tecniche e aumentato l’esperienza: oggi possiamo dire che il 95 per cento dei pazienti è operabile. Ma qui entra in gioco il fattore ‘età’ e le cose cambiano di nuovo.
Perché?
Da diversi punti di vista. Il primo è legato all’approccio. All’inizio di questa ‘avventura di cardiochirurgia’ – torniamo al 1994 – si pensava che fosse troppo rischioso sottoporre a questo tipo di intervento un paziente over 70. E così rappresentavano solo il 10 per cento degli interventi. Ma poi siamo andati avanti e nel 2016 la metà dei pazienti operati aveva più di 70 anni. E arriviamo al secondo aspetto, quello della co-morbilità. E’ statisticamente più facile che i candidati con i capelli bianchi, pur se tecnicamente operabili, abbiano delle controindicazioni legate ad altre problematiche e questo fa sì che, nostro malgrado, siano da considerare inoperabili. Ed infine un terzo aspetto, ancora marginale in termini di numeri statistici ma significativo: quello degli anziani che pur candidati alla sala operatoria decidono di non farsi operare perché non vogliono correre il rischio che comunque l’intervento comporta, che non vogliono vivere lo stress, che mi guardano e pur ringraziandomi dicono ‘lasciamo stare’. E’ per questi tre fattori che il dato sull’inoperabilità si è di nuovo alzato tornando ai livelli di 10 anni fa. Ma attenzione: non è cambiata la malattia, non sono regredite le tecniche è solo che oggi abbiamo aperto ad una platea di ‘over’ che prima non venivano presi neppure in considerazione.
La chirurgia per i pazienti con CTEPH dovrebbe essere la prima soluzione da intraprendere dopo la diagnosi. Eppure i pazienti sembrano arrivarci molto tardi. E’ davvero così?
Assolutamente sì ed è un problema tutto italiano. Ancora una volta vi faccio fare un passo indietro. Nel 2007 venne istituito, a livello mondiale, un registro per monitorare i pazienti che facevano ricorso all’intervento chirurgico. Partecipammo anche noi di Pavia. Alla fine emerse che il gruppo più cospicuo (circa il 65%) dei pazienti faceva parte della classe funzionale 3 ovvero di quelli che avevano sintomi importanti anche con sforzi medio-lievi; il 10% in classe funzionale 4 (sintomi importanti anche a riposo) e la restante parte in classe funzionale 2 (sintomi in seguito ad uno sforzo di una certa importanza pur se non eccessivo). Quando andammo a leggere nel dettaglio la casistica di Pavia ci rendemmo conto che il 45 per cento dei nostri pazienti proveniva dalla classe 4 e il 50 per cento dalla classe 3. Solo il 5 per cento dalla classe 2! E questo perché in Italia l’intervento era considerato l’ultima spiaggia.
Sono trascorsi molti anni da quello studio, ora qual è la situazione?
Se me lo avessero chiesto allora avrei detto che da lì a dieci anni non mi sarei più trovato davanti un paziente in classe funzionale 4 candidato all’intervento, perché avremmo operato tutti molto prima. E invece mi sarei sbagliato. Lo scorso anno i pazienti operati nel nostro centro in classe funzionale 4 sono stati più del 30%, più di tre volte i dati raccolti dal registro internazionale nel 2007! E il dato non è legato solo all’età dei pazienti, è proprio che ci arrivano in ritardo. Senza contare che molte volte ci arrivano da soli, grazie ad internet.
La ‘filiera’ dovrebbe essere corta: sintomo-diagnosi-chirurgia. Eppure un primo step sembra esserci alla voce diagnosi, che spesso arriva con molto ritardo. Ed un secondo alla voce chirurgia, che invece dovrebbe essere la terapia d’elezione. Perché succede tutto questo?
L’errore è nel sistema. È il meccanismo che non funziona. Non si può puntare il dito contro un singolo medico o contro una categoria di specialisti. Bisognerebbe proprio migliorare il tutto. Se ho un infarto e mi reco al pronto soccorso vengo indirizzato in cardiologia dove, oltre alla terapia, viene anche impostato un programma di follow-up con successivi controlli. Stesso iter se presento un’insufficienza respiratoria con ricovero, terapia e programma di follow-up in pneumologia. Se la mia diagnosi è un’embolia polmonare acuta non così grave da necessitare un ricovero in reparti di cura intensiva il mio destino è solitamente una medicina interna, una clinica medica oppure, seguendo una necessità di posti letto disponibili, una cardiologia o una pneumologia. Le cure sono sicuramente ottimali ma quello che manca, attualmente, è un programma di follow-up indirizzato ad intercettare precocemente i pazienti che sviluppano CTEPH. Dato che questa è una complicanza “rara” di una patologia frequente non si può certo attuare un programma estensivo di follow-up in tutti i pazienti dimessi con diagnosi di embolia polmonare acuta. Ma quello che si potrebbe fare, anzi si dovrebbe fare, è un esame ecocardiografico pre-dimissioni. In tutti quei pazienti in cui ancora alla dimissione l’ecocardiogramma “non convince” bisogna programmare un nuovo ecocardiogramma a distanza di tre mesi. Se anche dopo tre mesi di terapia anticoagulante il paziente presenta all’ecocardiogramma un quadro di ipertensione polmonare bisogna iniziare un iter diagnostico più approfondito. Solo così saranno intercettati i pazienti che hanno sviluppato CTEPH ma che sono ancora paucisintomatici, in classe funzionale 2. Se invece non si fanno dei controlli programmati il paziente tornerà dal medico solo quando avrà dei sintomi più avanzati.
Ma la diagnostica per immagini non aiuta?
Certamente ma anche qui ci sono dei distinguo da fare. Nonostante le Linee Guida dicano che prima va fatta la scintigrafia polmonare spesso accade – soprattutto in strutture più piccole – che la tappa ‘medicina nucleare’ si salti per passare direttamente all’angio-TAC. Peccato che mentre l’embolia polmonare acuta è perfettamente identificata dall’angio-TAC l’ipertensione polmonare cronica tromboembolica sia molto più difficile da vedere, soprattutto se le lesioni sono periferiche. E trattandosi di una malattia rara serve anche un ‘occhio allenato’ che sa riconoscere i segni e soprattutto sa dove andarli a cercare.
Conquistata a fatica la diagnosi perché ci si impiega tanto tempo per arrivare alla soluzione chirurgica?
Perché spesso si arriva alla diagnosi di ipertensione polmonare ma non del giusto tipo. E così il paziente segue una o più terapie mediche che non solo non sono indicate ma che ritardano l’approccio alla chirurgia.
Quale potrebbe essere la soluzione?
La prima cosa da fare è quello di trovare forza da un approccio multidisciplinare. E’ la collaborazione tra specialisti che ci permette rapidamente di giungere non solo ad una diagnosi ma anche a quella più corretta. Ogni settimana ci arrivano a Pavia delle TAC da parte di colleghi cardiologi, pneumologi ed internisti che nonostante un referto apparentemente negativo ci chiedono una seconda opinione. E spesso la loro intuizione si rivela giusta. Poi è importante indirizzare il paziente verso centri specializzati in modo che possano prenderlo in carico rapidamente. Faccio l’esempio della Gran Bretagna: sono solo 7 i Centri che possono fare diagnosi e cura su tutto il territorio nazionale. Quando un medico ha il sospetto – e sottolineo il sospetto – che un paziente possa soffrire di ipertensione polmonare in qualsiasi forma, lo deve indirizzare verso uno dei 7 centri e da lì inizia un iter virtuoso ma soprattutto rapido. Da noi il paziente è costretto ancora ad una via crucis nella quale bussa a troppe porte, fino a quando non trova qualcuno che riconosce i suoi sintomi.
Un paziente che arriva alla chirurgia con una lunga storia di malattia alle spalle ha minori possibilità di successo?
Sì e questo per una serie di fattori. Innanzitutto meccanici, perché le ostruzioni potrebbero essere così radicalizzate da rendere l’intervento inutile. Ci sono casi in cui l’arteria polmonare è come un ‘rinsecchito filamento’ e non si può più fare nulla. E poi funzionali, perché il danno innescato al microcircolo polmonare non interessato dai trombi resta anche dopo la soluzione chirurgica. E’ il caso spesso dei pazienti con CTEPH persistente e quelli con CTEPH ricorrente. Per questo vorremmo operare sempre più pazienti in classe funzionale 2 perché il danno al microcircolo non si è ancora innescato. E poi, non da ultimo, c’è il rischio intraoperatorio.
Più è avanzato lo stadio della malattia più l’intervento è rischioso?
Senza dubbio. Nella nostra casistica generale, che ad oggi conta poco meno di 800 pazienti, la mortalità ospedaliera a seguito di questo intervento di endoarteriectomia polmonare è del 5 per cento. Ma se analizziamo nel dettaglio le classi funzionali vediamo che la mortalità è meno dell’1 per cento nei pazienti in classe 2, del 5 per cento nei pazienti in classe 3 e del 15 per cento dei pazienti in classe 4. Anche se vorrei sottolineare che comunque l’85 per cento dei pazienti in classe 4 sopravvive e sta bene. Pazienti, quelli in classe 4, che senza l’intervento avrebbero una storia naturale di malattia, nella maggior parte dei casi, di pochi mesi se non addirittura di poche settimane.
Fin qui la via chirurgica. Per i pazienti con CTEPH la prima via. Per fortuna non l’unica, visto che a volte non è percorribile.
Prima dell’approvazione di riociguat non c’era alcuna terapia farmacologica approvata per il trattamento della CTEPH. E’ evidente, quindi, come abbia rappresentato un’importante arma a disposizione soprattutto per quei pazienti che a causa di una ipertensione polmonare cronica tromboembolica persistente (e cioè quelli che dopo 3-6 mesi dall’intervento restano ipertesi) o per una ipertensione polmonare cronica tromboembolica ricorrente (e cioè quelli che dopo una prima normalizzazione seguita all’intervento a distanza di tempo, anche anni, hanno una ripresa dell’ipertensione polmonare senza nuove ostruzioni) devono tenere sotto controllo la malattia. E poi ci sono i pazienti inoperabili per diverse ragioni. Per questi pazienti la terapia farmacologica è davvero importante.
L’intervista finisce ma i racconti no. Perché c’è ancora tempo per parlare del ragazzo del Montenegro dal volto grigio per la malattia, del ragazzo italiano che è tornato a sciare a tremila metri e che gli ha appena portato a far vedere le foto, della ragazza marocchina che ha avuto due figli nonostante fosse inoperabile ad un polmone, e di quella italiana che sogna di diventare mamma presto. «Ma si è lasciata con il ragazzo, succede» mi dice il professor D’Armini. E’ vero, succede. E’ la vita. E per tutti questi pazienti vivere non è una cosa scontata.