D’Alto: è necessario un approccio multidisciplinare per una diagnosi precoce di ipertensione polmonare
«Lo dico sempre ai miei pazienti: da oggi non sei più solo. Il ‘peso’ della malattia lo portiamo insieme. Perché solo così, da alleati, possiamo vincere le battaglie che ci porteranno a vincere la guerra. Per affrontare l’ipertensione polmonare è davvero importante che i pazienti si rendano conto che il medico è dalla loro parte, al loro fianco. Non si tratta di dispensare ‘scienza’ calandola dall’alto ma di rimboccarsi le maniche, insieme. Ai medici il compito di metterci tutta la loro esperienza, ai malati quello di metterci il loro coraggio e la loro fiducia». Battaglia, guerra, coraggio. A sentir parlare Michele D’Alto quasi riecheggia in sottofondo il rumore della marcia di un esercito in cammino. E in fondo è così. Perché i malati di ipertensione polmonare saranno anche ‘rari’ ma il peso dei loro passi è imponente. Perché sono passi di chi affronta una ‘maratona’ di 6 minuti con la paura di fare sempre meno strada. Perché c’è la consapevolezza che quel peso della malattia che grava sul respiro – ma anche sull’anima – sia un fardello troppo difficile da sostenere a lungo. Michele D’Alto è Responsabile del Centro sull’ipertensione polmonare della cardiologia sun, AO Monaldi di Napoli.
La strada di un paziente con ipertensione polmonare verso la diagnosi è simile a una ripida scalata- è proprio il caso di dirlo- da togliere il fiato. I pazienti denunciano che non solo si trovano ad affrontare il problema della patologia, che di per sé sarebbe già drammatico, ma anche quello della difficoltà ad arrivare in tempi più rapidi possibili ad una diagnosi e, quindi, ad un approccio terapeutico, chirurgico e/o farmacologico che per alcune forme c’è ed è efficace. E’ una denuncia fondata?
Assolutamente sì. Perché è vero, il ritardo diagnostico è un enorme problema per i pazienti con ipertensione polmonare. Si calcola che tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi definitiva passino in media più di 2 anni. Periodo che potrebbe essere utilizzato per somministrare terapie adeguate e cambiare la storia clinica dei pazienti.
Perché ci sono ancora tanti ritardi in questo approccio diagnostico?
Prendiamo l’ ipertensione arteriosa polmonare, il livello di attenzione per fortuna è notevolmente aumentato negli ultimi anni, ma quello che ancora manca è un coordinamento tra i Centri. Una rete grazie alla quale i Centri meno esperti, ma che intercettano il paziente nelle fasi iniziali della malattia, siano collegati rapidamente ai Centri più esperti.
Più attenzione ma non ancora abbastanza?
E’ una fotografia con luci ed ombre. Perché se da una parte c’è la soddisfazione di vedere che negli ultimi tempi i pazienti arrivano in una fase più precoce di insorgenza della malattia, dall’altra c’è la delusione nel renderci conto che ancora tanti fanno i conti con i ritardi. Una malattia vissuta a due velocità. E non c’è ragione perché questo succeda. E’ una sensazione frustrante.
Cosa accade, quindi, al paziente prima di arrivare al Centro specializzato e come cambia la gestione della patologia dopo la presa in carico da parte di una struttura specializzata?
Spesso il paziente si trova a girare, facendo una serie di consulenze un po’ slegate tra loro, bussa alla porta di un cardiologo, di uno pneumologo, di un internista. Racconta i suoi sintomi, le sue difficoltà, cerca in ognuno di questi specialisti la risposta al suo problema. E ognuno di loro analizza alcuni aspetti della malattia, soprattutto dal suo punto di vista, senza una reale visione d’insieme e per questo, in genere, non si giunge ad una diagnosi definitiva. Al contrario, in un Centro esperto, l’approccio è globale e c’è la capacità e l’esperienza per chiudere il cerchio.
Un paziente lasciato da solo, quindi, si trova in un labirinto di specialisti, di porte alle quali bussare, di domande che non trovano risposta. Un paziente seguito da un Centro viene preso in carico e ha davanti a sé un percorso lineare e a tappe ben delineate. Una differenza sostanziale, tra essere lasciati al proprio destino ed essere curati. Il primo si vede costretto a sperare di incontrare lo specialista giusto che ha la giusta ‘intuizione’ diagnostica, il secondo ha la certezza di una diagnosi. Qual è il percorso diagnostico ‘virtuoso’ che un paziente segue in un Centro?
In estrema sintesi, si può dire che il percorso diagnostico è molto complesso e prevede l’esecuzione di numerosi esami come l’ecocardiogramma, le prove spirometriche, la TAC del torace con e senza contrasto, la scintigrafia polmonare, il cateterismo cardiaco. Esami strumentali importanti che vanno letti da occhi esperti che sanno cosa cercare. Così si arriva alla diagnosi. A questo punto, il paziente viene sottoposto ad una terapia specifica e seguito in maniera molto stretta per capire durante il follow-up, cioè durante i successivi controlli clinici, se la risposta alla terapia è soddisfacente o se sia necessario eseguire terapie più aggressive.
L’invito, quindi, è quello di indirizzare i pazienti ad un Centro specializzato per garantire una diagnosi precoce e quindi un accesso alle cure più adeguate, reso possibile anche da un approccio corretto e multidisciplinare da parte di tutti i clinici coinvolti nelle diverse fasi della patologia. Un aspetto importante per la terapia ma ancora di più per la diagnosi. Perché la multidisciplinarietà è la chiave vincente? E cosa fare per renderla una realtà concreta al servizio del paziente?
Proprio così: la diagnosi precoce può essere effettuata solo in un Centro con adeguata esperienza, che si avvale di molti specialisti che collaborano e sanno gestire adeguatamente tutti gli aspetti della malattia. E la gestione collegiale è un momento chiave anche per la valutazione dell’efficacia della terapia, per la gestione della criticità e delle fasi di peggioramento, e per rispondere a tutte le esigenze dei pazienti. Nel nostro gruppo di lavoro, per esempio, al nucleo “storico” costituito da cardiologi, pneumologi, chirurghi, radiologi, reumatologi, infermiere specializzate, si sono recentemente aggiunte due psicologhe, che hanno contribuito in maniera importante al benessere dei pazienti.
Il paziente chiede, ovviamente, di essere preso in carico, di essere curato. Ma c’è anche una richiesta di rassicurazione?
I malati ci chiedono di essere assistiti a tutto tondo. Ovviamente ci chiedono il farmaco più adatto, la cura più efficace. E lo fanno perché hanno bisogno di tornare a vivere. Ad un paziente interessa poco la variazione delle resistenze polmonari o la minima differenza sul test dei 6 minuti. Ci chiedono di poter tornare al lavoro, accompagnare i figli a scuola, uscire con gli amici. E’ la qualità della vita l’unico parametro al quale si affidano. Per questo anche l’aspetto psicologico è importante: perché la loro è una storia di dolore, di disagio sociale e relazionale. Ci sono successi ma anche fallimenti da affrontare insieme.
Basta navigare un po’ in rete e cercare tra i siti che parlano di malati e malattie per rendersi conto che digitando ‘ipertensione polmonare’ escono moltissime recensioni di pazienti ai diversi centri di riferimento. E sono tutte piene di parole di gratitudine. Ringraziano per le cure ma soprattutto per l’umanità trovata. Quasi fossero arrivati in un porto sicuro.
Il rapporto che si instaura è davvero speciale. Personale. L’idea di combattere fianco a fianco non rimane solo sulla carta, non è solo una buona intenzione. Perché entriamo nelle loro vite e spesso ridiamo vita alla vita. C’è una paziente, di 34-35 anni, che tutti gli anni quando festeggia il compleanno della figlia mi manda la foto della torta con le candeline. Ogni anno. Ogni candelina in più. E tutte le volte mi ringrazia perché non ci sperava di poter vedere la figlia crescere. Tutte le volte la foto della torta mi strappa un sorriso, mi riempie di soddisfazione e mi ricarica l’entusiasmo di mettermi al fianco di quell’esercito ‘raro’ ma così tanto combattivo.