A mano libera. Parole di marmo scritte dal carcere. Il potere terapeutico della scrittura
Parole scritte a mano libera. Parole di marmo per raccontare giovani vite in sosta. Parole mute che prendono voce sul palco. Perché nel carcere minorile le lettere a casa colmano i vuoti, il teatro riempie i silenzi. La rinascita di questi ragazzi parte anche da qui, da un progetto teatrale che ha fatto delle loro lettere un punto di forza. Che ha fatto di loro un punto di forza. Lo spettacolo di fine anno non è che un tributo al loro impegno e all’entusiasmo di chi crede in loro. A dispetto del mondo ‘fuori’. Anche questo è ‘fare salute’. Anche questo è ‘fare benessere’. Perché per questi ragazzi un laboratorio teatrale può essere l’occasione per alleviare – per guarire serve molto altro – le ferite che portano scritte sulla pelle, tra un tatuaggio e l’altro.
‘A mano libera’ va in scena in una caldissima giornata di giugno, al Carcere Minorile di Casal del Marmo di Roma. Alex, Ballantain, Riccardo, Valentino, Awkar e William salgono sul palco con quel misto di allegria, strafottenza, scanzonata inscoscienza tipica dei ragazzi. Nel pubblico nessuna mamma emozionata, nessun padre orgoglioso. Ma altri ragazzi e i loro educatori. E, in fondo, c’è Emanuela Giovannini, regista, una giovane donna che sembra più ragazza di loro. Li guarda orgogliosa e fiera. E’ lei a guidare il progetto ma soprattutto è lei la prima a credere a loro. E sì che ne hanno bisogno. ‘Se fossi una lettera sarei una multa‘, ‘se fossi una lettera sarei un invito a migliorarsi‘, ‘se fossi una lettera sarei una lettera volante‘. Se fossi….
«Che hanno fatto degli errori i ragazzi lo sanno. Sapevano di non dovere compiere certi atti, sapevano che erano reati. E per puntare il dito contro una persona non servono grandi qualità: è uno dei comportamenti più diffusi. Ciò di cui hanno sempre bisogno degli adolescenti non è capire ciò che non si fa ma capire cosa c’è di meglio da fare» dice Emanuela Giovannini. «Io guardo il ragazzo che ho davanti e intuisco chi può diventare sulla scena. Faccio un progetto su di lui, un sogno. Sogno il mio allievo come non è, come non è ancora. Faccio sui ragazzi, all’interno di un’Istituzione che lo fa molto più di me e in modo, senz’altro più concreto e mirato, quei progetti di vita che non hanno fatto le loro famiglie. Una vita scenica, certo, che gode dei suoi frutti per un solo breve istante, ma vera, possibile. E’ per questo che oggi, come quando ho iniziato, credo ancora nelle parole di Danilo Dolci: ciascuno cresce solo se sognato».
Ragazzi sognati, amati, aiutati. E dal palco ripagano tanta fatica con tutto il loro entusiasmo. Senza troppe velleità artistiche. Ma nessuno di loro sogna di diventare un attore famoso. Anche perché i sogni sono lussi che non tutti loro possono permettersi. E dalle loro lettere questa cosa si capisce bene. In un mondo quasi totalmente digitalizzato, questi ragazzi sono fra quei pochi che ancora usano scrivere lettere per comunicare. E lo fanno all’antica, senza potersi nascondere dietro a faccine, sms, messaggi vocali. A dispetto di errori grammaticali, studi abbandonati, una lingua imparata sul campo. Una costrizione imposta dalla condizione detentiva che diventa occasione per liberare i pensieri. E’ il potere evocativo e terapeutico dela scrittura.
«Questo progetto teatrale – aggiunge Emanuela Giovannini – nasce proprio dalla loro scrittura. Abbiamo preso le loro lettere, in genere alle famiglie ma gli abbiamo anche chiesto di raccontarsi e raccontare il carcere. Ne è uscito uno spaccato irriverente, ironico, divertente. Perché in fondo i ragazzi sono ragazzi sempre, anche in un carcere. Tutto questo materiale è diventato un libro dal titolo ‘A mano libera’ e uno spettacolo. Senza velleità di farne degli scrittori o degli attori, ma utilizzando l’arte come mezzo per avvicinarli a loro stessi e alla cultura visto che scappano da ogni forma di scuola».
Ideato e diretto da Emanuela Giovannini con la collaborazione di Paolino Blandano e Valerio Di Filippo, lo spettacolo è stato l’atto conclusivo di un progetto teatrale portato avanti in carcere dall’Associazione Adynaton-Officina di Teatro Sociale, con il patrocinio del Ministero della Giustizia-Dipartimento Giustizia Minorile/Centro per la Giustizia Minorile del Lazio e il Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Lazio e realizzato con il contributo della Regione Lazio, Assessorato Cultura e Politiche Giovanili.
L’Associazione Adynaton con l’Officina di Teatro Sociale quest’anno compie vent’anni al fianco dei giovani coinvolti in procedimenti penali o in condizione di disagio sociale e familiare. Vent’anni a lavorare sulla “leggerezza” perché agisca in profondità, in un luogo dove tutto ha un peso e fra vite e storie pesanti. Vent’anni a utilizzare l’arte come mezzo per avvicinare i ragazzi a loro stessi e alla cultura.
Leggerezza. E’ la parola che meglio sintetizza tutto lo spettacolo. Perché i ragazzi sul palco e quelli nel pubblico ridono, scherzano, ammiccano come farebbe ogni ragazzo. Salgono sul palco con passo sicuro e per poi prendere un foglio in mano e con il tremore tradire una grande emozione. A dispetto di quella faccia da duro e quei tatuaggi che coprono il viso ma non riescono a coprire le emozioni. C’è chi si lancia un bacio, chi fa il segno del cuore con le mani. Ragazzi e ragazze di una qualsiasi scolaresca, di una qualsiasi città in un’assolata giornata di giugno. Le tende tirate alle finestre non fanno vedere le grate. E gli sguardi dolci delle guardie fanno persino dimenticare dove ci si trova. Perché i ragazzi sono così, se li lasci sognare vanno ‘a mano libera’.